Intro: Da qualche mese ho capito che non ho più voglia di curare il mio personal branding, di investire tempo e risorse nella costruzione della mia reputazione. Mi sono semplicemente rotto il cazzo di farlo, e ti spiego il perché.
Il personal branding è una cosa seria, alla quale bisogna dedicare tempo, risorse, lacrime e sudore, perché non si nutre da solo e non cresce se non lo curi con costanza.
Lo so benissimo, l’ho imparato nel peggiore dei modi, abbandonando i buoni propositi applicati per anni negli ultimi 12 mesi, per una serie di ragioni personali che non sto qui a spiegarti.
Però, oltre ai miei problemi, che mi hanno impedito di avere la lucidità mentale necessaria per curare il mio personal branding, a farmi mollare un po’ la presa è stato anche la brutta piega che ha preso il settore nel quale opero, il digital marketing, che mi ha fatto capire una cosa importante: non sono fatto per queste stronzate.
Di cosa parlo in questo post
Il personal branding nel digital marketing: una giungla avvilente
Da qualche tempo faccio sempre più difficoltà a vivere con fluidità le dinamiche che regnano nel magico mondo del digital marketing, che noto essere sempre più simile ad una giungla, piena di predatori e prede, in un coacervo avvilente, almeno per me.
Mi sembra di ammirare da vicino una sorta di esperimento in laboratorio, e non credo che rivedere i vecchi episodi di Fringe mi aiuti in questo senso.
Lo scenario è questo, almeno quello che vedo io:
- La superstar, che appena scorreggia riceve encomi e complimenti per l’effluvio;
- Il rosicone, quello che non se lo caga nessuno e usa i social solo per sfogare la valvola della frustrazione;
- Quello bravo, così bravo che non ha nemmeno più bisogno di dimostrarlo. Ammesso che lo abbia mai fatto;
- Il newbie, che lascia un commento a tutti, da buon seguace di Mastella;
- Quello che dichiara di non fare endorsement sui social, ma esprime solo opinioni personali, come se questo cambiasse la portata e gli effetti di ciò che scrive o dice;
- Il faccione, quello che non può proprio fare a meno di pubblicare video e di creare visual quote nei quali si cita addosso, manco fosse Oscar Wilde;
- Il figo, quello bello bello bello in modo assurdo, che sa di essere figo e non fa niente per nasconderlo;
- Quella figa, che si fa il selfie o pubblica la foto delle sue grazie farcendo il post con una bella citazione colta.
- Il guru, quello che influenza le genti e apre le menti, come un neurochirurgo o un serial killer;
- Il prezzemolino, che va ovunque, e non mi spiego come cazzo faccia a permettersi tutti questi viaggi “di lavoro”.
Il personal branding e la voglia di farsi da parte
Devo ammetterlo, in passato mi divertivo a far parte di questo circo, anzi, lavoravo molto per farne parte e godere degli effetti galvanizzanti della popolarità (limitata al settore, ovviamente), ma da qualche tempo mi rompo amabilmente il cazzo.
Come detto prima, nell’ultimo anno ho bruciato quanto di buono avevo fatto per accrescere il personal branding e la reputazione, mi sono rintanato in un angolo a lavorare sodo per cercare di risolvere tutti i casini della mia vita, e ne pago le conseguenze, ovviamente, senza lamentarmi con nessuno.
Però, non ho più voglia di sbattermi, preferisco tornare alle origini, a lavorare dietro le quinte osservando quello che fanno gli altri, parlando solo quando ho davvero qualcosa da dire, o credo di avere qualcosa da dire.
Il personal branding potrà anche uscirne devastato, ma dopo qualche anno di esperienza ho capito che non sono tagliato per tutto questo.
Come direbbe il mitico Groucho Marx
“Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”